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Canto 6
1
Meta al fuggir le inviolate schiere
Di Topaia ingombràr le quattro porte.
Non che ferir, potute anco vedere
Non ben le avea de' granchi il popol forte.
Cesar che vide e vinse, al mio parere,
Men formidabil fu di Brancaforte,
Al qual senza veder fu co' suoi fanti
Agevole a fugar tre volte tanti.
2
Tornata l'oste a' babbi intera e sana,
Se a qualcuno il fuggir non fu mortale,
Chiuse le porte fur della lor tana
Con diligenza alla paura uguale.
E per entrarvi lungamente vana
Stata ogni opra saria d'ogni animale,
Sì che molti anni in questo avria consunto
Brancaforte che là tosto fu giunto,
3
Se non era che quei che per nefando
Inganno del castello eran signori,
E ch'or più faci al vento sollevando
Sedean lassù nell'alto esploratori,
Visto il popolo attorno ir trepitando
E dentro ritornar quelli di fuori,
Indovinàr quel ch'era, e fatti arditi
I serragli sforzàr mal custoditi.
4
E con sangue e terror corsa la terra
Aprìr le porte alla compagna gente,
Che qual tigre dal carcer si disserra,
O da ramo si scaglia atro serpente,
Precipitaron dentro, e senza guerra
Tutto il loco ebber pieno immantinente.
Il rubare, il guastar d'una nemica
Vincitrice canaglia il cor vi dica.
5
Più giorni a militar forma d'impero
L'acquistata città fu sottoposta,
Brancaforte imperando, anzi nel vero
Quel ranocchin ch'egli avea seco a posta
A ciò che l'alfabetico mistero
Gli rivelasse in parte i dì di posta,
E sempre che bisogno era dell'arte
D'intendere o parlar per via di carte.
6
Tosto ogni atto, ogn'indizio, insegna o motto
Di mista monarchia fu sparso al vento,
Raso, abbattuto, trasformato o rotto.
Chi statuto nomava o parlamento
In carcere dai lanzi era condotto,
Che del parlar de' topi un solo accento
Più là non intendendo, in tal famiglia
Di parole eran dotti a maraviglia.
7
Leccafondi che noto era per vero
Amor di patria e del civil progresso,
Non sol privato fu del ministero
E del poter che il re gli avea concesso,
Ma dalla corte e dai maneggi intero
Bando sostenne per volere espresso
Di Senzacapo, e i giorni e le stagioni
A passar cominciò fra gli spioni.
8
Rodipan mi cred'io che volentieri
Precipitato i granchi avrian dal trono.
Ma trovar non potendo di leggeri
Chi per sangue a regnar fosse sì buono,
Spesi d'intorno a ciò molti pensieri,
Parve al re vincitor dargli perdono,
E re chiamarlo senza altro contratto,
Se per dritto non era almen per fatto.
9
Ma con nome e color d'ambasciatore
Inviogli il baron Camminatorto
Faccendier grande e gran raggiratore
E in ogni opra di re dotto ed accorto,
Che per arte e per forza ebbe valore
Di prestamente far che per conforto
Suo si reggesse il regno, e ramo o foglia
Non si movesse in quel contro sua voglia.
10
Chiuso per suo comando il gabinetto,
Chiuse le scole fur che stabilito
Aveva il conte, come sopra ho detto,
E d'esser ne' caratteri erudito
Fu, com'ei volle, al popolo interdetto,
Se di licenza special munito
A ciò non fosse ognun: perché i re granchi
D'oppugnar l'abbiccì non fur mai stanchi.
11
Quindi i reami lor veracemente
Fur del mondo di sopra i regni bui.
Ed era ben ragion, che chiaramente
Dovean veder che la superbia in cui
La lor sopra ogni casa era eminente
Non altro avea che l'ignoranza altrui
Dove covar: che dal disprezzo, sgombra
Che fosse questa, non aveano altr'ombra.
12
Lascio molti e molti altri ordinamenti
Del saggio nunzio, e sol dirò che segno
Della bontà de' suoi provvedimenti
Fu l'industria languir per tutto il regno,
Crescer le usure, impoverir le genti,
Nascondersi dal Sol qualunque ingegno,
Sciocchi o ribaldi conosciuti e chiari
Cercar soli e trattar civili affari.
13
Il popolo avvilito e pien di spie
Di costumi ogni dì farsi peggiore,
Ricorrere agl'inganni, alle bugie,
Sfrontato divenendo e traditore,
Mal sicure da' ladri esser le vie
Per tutta la città non che di fuore;
L'or fuggendo e la fede entrar le liti,
Ed ir grassi i forensi ed infiniti.
14
Subito poi che l'orator fu giunto
Cui de' topi il governo era commesso
Dal re de' granchi, a Brancaforte ingiunto
Fu di partir co' suoi. Ma dallo stesso
Cresciuto insino a centomila appunto
Fu lo stuolo in castel male intromesso,
Il resto a trionfar di topi e rane
Tornò con Brancaforte alle sue tane.
15
Allor nacque fra' topi una follia
Degna di riso più che di pietade,
Una setta che andava e che venia
Congiurando a grand'agio per le strade,
Ragionando con forza e leggiadria
D'amor patrio, d'onor, di libertade,
Fermo ciascun, se si venisse all'atto,
Di fuggir come dianzi avevan fatto,
16
E certo quanto a sé che pur col dito
Lanzi ei non toccheria né con la coda.
Pure a futuri eccidi amaro invito
O ricevere o dar con faccia soda
Massime all'età verde era gradito,
Perché di congiurar correa la moda,
E disegnar pericoli e sconquasso
Della città serviva lor di spasso.
17
Il pelame del muso e le basette
Nutrian folte e prolisse oltre misura,
Sperando, perché il pelo ardir promette,
D'avere, almeno ai topi, a far paura.
Pensosi in su i caffè, con le gazzette
Fra man, parlando della lor congiura,
Mostraronsi ogni giorno, e poi le sere
Cantando arie sospette ivano a schiere.
18
Al tutto si ridea Camminatorto
Di sì fatte commedie, e volentieri
Ai topi permettea questo conforto,
Che con saputa sua senza misteri,
Lui decretando or preso, or esser morto,
Gli congiurasser contro i lustri interi:
Ma non sostenne poi che capo e fonte
Di queste trame divenisse il conte.
19
Al quale i giovinastri andando in frotte
Offrian sé per la patria a morir presti;
E disgombro giammai né dì né notte
Non era il tetto suo d'alcun di questi.
Egli, perché le genti ancorché dotte
E sagge e d'opre e di voleri onesti,
Di comandare altrui sempre son vaghe,
E più se in tempo alcun di ciò fur paghe;
20
Anche dal patrio nome e da quel vero
Amor sospinto ond'ei fu sempre specchio,
Inducevasi a dar, se non intero
Il sentimento, almen grato l'orecchio
Al dolce suon che lui nel ministero,
E che la patria ritornar nel vecchio
Onore e grado si venia vantando
E con la speme il cor solleticando.
21
L'ambasciador, quantunque delle pie
Voglie del conte ancor poco temesse,
Pur com'era mestier che molte spie
Con buone paghe intorno gli tenesse,
Rivolger quei danari ad altre vie,
E torsi quella noia un giorno elesse,
E gentilmente e in forma di consiglio
Costrinse il conte a girsene in esiglio.
22
Peregrin per la terra il chiaro topo
Vide popoli assai, stati e costumi;
A quante bestie narrò poscia Esopo
Si condusse varcando or mari or fiumi,
Con gli occhi intenti sempre ad uno scopo
D'augumentar come si dice i lumi
Alle sue genti, e se gli fosse dato
Trovar soccorso al lor dolente stato.
23
Com'esule e com'un ch'era discaro
Al re granchio, al baron Camminatorto,
E ch'alfabeto e popolo avea caro,
Molte corti il guardàr con occhio torto.
Più d'un altro con lui fu meno avaro,
Più d'un ministro e re largo conforto
Gli porse di promesse, ed ei contento
Il cammin proseguia con questo vento.
24
Una notte d'autunno, andando ei molto
Di notte, come i topi han per costume,
Un temporal sopra il suo capo accolto
Oscurò delle stelle ogni barlume,
Gelato un nembo in turbine convolto
Colmò le piagge d'arenose spume,
Ed ai campi adeguò così la via,
Che seguirla impossibil divenia.
25
Il vento con furor precipitando
Schiantava i rami e gli arbori svellea,
E tratto tratto il fulmine piombando
Vicine rupi e querce scoscendea
Con altissimo suon, cui rimbombando
Ogni giogo, ogni valle rispondea,
E con tale un fulgor che tutto il loco
Parea subitamente empier di foco.
26
Non valse al conte aver la vista acuta,
E nel buio veder le cose appunto,
Che la strada assai presto ebbe perduta,
E dai seguaci si trovò disgiunto.
Per la campagna un lago or divenuta
Notava o sdrucciolava a ciascun punto.
Più volte d'affogar corse periglio,
E levò supplicando all'etra il ciglio.
27
Il vento ad or ad or mutando lato
più volte indietro e innanzi il risospinse,
Talora il capovolse e nel gelato
Umor la coda e il dorso e il crin gli tinse,
E più volte a dir ver quell'apparato
Di tremende minacce il cor gli strinse,
Che di rado il timor, ma lo spavento
Vince spesso de' saggi il sentimento.
28
Cani pecore e buoi che sparsi al piano
O su pe' monti si trovàr di fuore,
Dalle correnti subite lontano
Ruzzolando fur tratti a gran furore
Insino ai fiumi, insino all'oceano,
Orbo lasciando il povero pastore.
Fortuna e delle membra il picciol pondo
Scamparo il conte dal rotare al fondo.
29
Già ristato era il nembo, ed alle oscure
Nubi affacciarsi or l'una or l'altra stella
Quasi timide ancora e mal sicure
Ed umide parean dalla procella.
Ma sommerse le valli e le pianure
Erano intorno, e come navicella
Vota fra l'onde, senza alcuna via
Il topo or qua or là notando gia.
30
E in suo cor sottentrata allo spavento
Era l'angoscia del presente stato.
Senza de' lochi aver conoscimento,
Solo e già stanco, e tutto era bagnato.
Messo s'era da borea un picciol vento
Freddo, di punte e di coltella armato,
Che dovunque, spirando, il percotea,
Pungere al vivo e cincischiar parea.
31
Sì che se alcun forame o s'alcun tetto
Non ritrovasse a fuggir l'acqua e il gelo,
E la notte passar senza ricetto
Dovesse, che salita a mezzo il cielo
Non era ancor, sentiva egli in effetto
Che innanzi l'alba lascerebbe il pelo.
Ciò pensando, e mutando ognor cammino,
Vide molto di lungi un lumicino,
32
Che tra le siepi e gli arbori stillanti
Or gli appariva ed or parea fuggito.
Ma s'accorse egli ben passando avanti
Che immobile era quello e stabilito,
E di propor quel segno ai passi erranti,
O piuttosto al notar, prese partito:
E così fatto più d'un miglio a guazzo,
Si ritrovò dinanzi ad un palazzo.
33
Grande era questo e bello a dismisura,
Con logge intorno intorno e con veroni,
Davanti al qual s'udian per l'aria oscura
Piover due fonti con perenni suoni.
Vide il topo la mole e la figura
Questa aver che dell'uomo han le magioni:
Dal lume il qual d'una finestra uscia
Ch'abitata ella fosse anco apparia.
34
Però di fuor con cura e con fatica
Cercolla il topo stanco in ogni canto,
Per veder di trovar nova od antica
Fessura ov'ei posar potesse alquanto,
Non molto essendo alla sua specie amica
La nostra insin dalla stagion ch'io canto.
Ma per molto adoprarsi una fessura
Né un buco non trovò per quelle mura.
35
Strano questo vi par, ma certo il fato
Intento il conducea là dove udrete.
Che vedendosi omai la morte allato,
Che il Cesari chiamò mandar pel prete,
E sentendosi il conte esser dannato
D'ogni male a morir fuorché di sete
Se fuor durasse, di cangiar periglio,
D'osare e di picchiar prese consiglio.
36
E tratto all'uscio e tolto un sassolino,
Dievvi de' colpi a suo poter più d'uno.
Subito da un balcon fe capolino
Un uom guardando, ma non vide alcuno.
Troppo quel che picchiava era piccino,
Né facil da veder per l'aer bruno.
Risospinse le imposte, e poco stante
Ecco tenue picchiar siccome avante.
37
Qui trasse fuori una lucerna accesa
L'abitator del solitario ostello,
E sporse il capo, e con la vista intesa
Mirando inverso l'uscio, innanzi a quello
Vide il topo che pur con la distesa
Zampa facea del sassolin martello.
Crederete che fuor mettesse il gatto,
Ma disceso ad aprir fu quegli a un tratto
38
E il pellegrin con modo assai cortese
Introdusse in dorati appartamenti,
Parlando della specie e del paese
Dei topi i veri e naturali accenti.
E vedutol così male in arnese,
E dal freddo di fuor battere i denti,
Ad un bagno il menò dove lavollo
Dalla mota egli stesso e riscaldollo.
39
Fatto questo, di noci e fichi secchi
Un pasto gli arrecò di regal sorte,
Formaggio parmegian, ma di quei vecchi,
Fette di lardo e confetture e torte,
Tutto di tal sapor che paglia e stecchi
Parve al conte ogni pasto avuto in corte.
Cenato ch'ebbe, il dimandò del nome
E quivi donde capitasse, e come.
40
A dire incominciò, siccome Enea
Nelle libiche sale, il peregrino.
Al dirimpetto l'altro gli sedea
Sur una scranna, ed ei sul tavolino
Con due zampe atteggiando, e gli pendea
Segno d'onor dal collo un cordoncino,
Che salvo egli a fatica avea dai flutti,
Dato dal morto re Mangiaprosciutti.
41
E dal principio il seme e i genitori
E l'esser suo narrò succintamente.
Poi discendendo ai sostenuti onori
Fecesi a ragionar della sua gente,
Narrò le rane ed i civili umori,
La carta e il granchio iniquo e prepotente
Le due fughe narrò chinando il ciglio,
E le congiure, ed il non degno esiglio.
42
E conchiudendo, siccom'era usato,
Raccontò le speranze e le promesse
Che da più d'un possibile alleato
Raccolte avea autentiche ed espresse,
E l'ospite pregò che avesse dato
Soccorso anch'egli ai topi ove potesse.
Rari veleni d'erbe attive e pronte
Quegli offerì, ma ricusolli il conte.
43
Dicendo, ch'oltre al non poter sì fatto
Rimedio porsi agevolmente in opra,
A quell'intento saria vano affatto
Ch'egli ad ogni altro fin ponea di sopra,
Che il popol suo d'onor fosse rifatto,
Dal qual va lunge un ch'arti prave adopra.
Lodò l'altro i suoi detti e gli promesse
Che innanzi che dal sonno egli sorgesse,
44
Pensato avrebbe al caso intentamente
Per trovar, se potea, qualche partito.
Già l'aere s'imbiancava in oriente
E di più stelle il raggio era sparito,
E il seren puro tutto e tralucente
Promettea ch'un bel dì fora seguito.
Quasi sgombro dall'acque era il terreno,
E il soffio boreal venuto meno.
45
L'ospite ad un veron condusse il conte
Mostrando il tempo placido e tranquillo.
Sola i silenzi l'una e l'altra fonte
Rompea da presso, e da lontano il grillo.
Qualche raro balen di sopra il monte
Il nembo rammentava a chi soffrillo.
Poscia a un letto il guidò ben preparato,
E da lui per allor prese commiato.
Δ
Inno
ai patriarchi o de'principii del genere umano
E voi de' figli dolorosi il canto,
Voi dell'umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto all'eterno
Degli astri agitator più
cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell'etereo lume assai più
dolci
Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l'uman seme alla tiranna
Possa de' morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più
dire
Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,
E demenza maggior l'offeso Olimpo
N'armaro incontra, e la negletta mano
Dell'altrice natura; onde la viva
Fiamma n'increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de' campi, o duce antico e padre
Dell'umana famiglia, e tu l'errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l'alpina onda feria
D'inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl'inarati colli
Solo e muto ascendea l'aprico raggio
Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D'amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de' venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne' consorti ricetti: onde negata
L'improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò; ne' corpi inerti
Domo il vigor natio, languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù
le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall'etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima
Dall'aer cieco e da' natanti poggi
Segno arrecò
d'instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,
L'atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl'inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de' pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò
siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de' celesti peregrini occulte
Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all'odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (né
d'error vano e d'ombra
L'aonio canto e della fama il grido
Pasce l'avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Né guidasse
per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d'affanno
Visse l'umana stirpe; alle secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l'ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l'intima rupe, onde ministra
L'irrigua valle, inopinato il giorno
Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l'invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl'ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità
per l'imo sole incalza.
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